L'unica via d'uscita: una sosta temporanea, una chiamata al soccorso alpino e l'attesa dell'elicottero, mentre due metri più in là le valanghe di neve bagnata si precipitano a valle. Di seguito, Pete descrive la sua esperienza e giunge alla conclusione che la sopravvivenza o meno a volte non è solo una questione di abilità ed esperienza, ma soprattutto di fortuna.
Domenica 28 gennaio
"Maledizione..." mormoro tra me e me. Tanto non c'è nessun altro in giro che possa sentirmi. Ho appena trascorso troppo tempo a scansare con cautela la discesa, con la piccozza in mano ma con gli sci ai piedi, su profonde gallerie di neve a prova di proiettile e di roccia nuda, scavate e levigate dalla valanga della scorsa notte'.
Quando mi avvicino lentamente a una curva poco profonda dell'ampio canalone, i miei occhi si posano su uno spettacolo che mi fa sprofondare ulteriormente il cuore: l'enorme cono di neve che avevo visto con il binocolo proprio ieri sera, ancora ordinatamente impilato in fondo al canalone di uscita al tramonto, non c'è più. Ora è stesa sul ghiacciaio molto sotto di me in un frattale di viticci ornamentali, ciascuno lungo un centinaio di metri, e al suo posto si trova uno stretto canalone roccioso, delimitato da un lato da un granito imponente e dall'altro da una parete morenica in rovina. "Dannazione." ripeto, ancora più silenzioso.
Guardo indietro alle scogliere sopra di me e ai pendii esposti a sud al di là di esse, che brillano, scintillano nel sole di mezzogiorno. Non ho molto tempo. Estraggo l'asta della piccozza dalla neve sopra di me e ancoro lo zaino alla collina con il manico di un bastone da sci conficcato nel buco. Mi slaccio le dita dei piedi e scendo dagli sci da salita, infilo il primo rampone, poi scavo una piccola sporgenza sotto gli sci da discesa su cui stare comodamente in piedi per poter fare lo stesso con l'altro piede. Dopo aver legato gli sci allo zaino e riposto un bastone, scendo lungo il canalone rotto, facendomi strada tra le chiazze di ghiaccio a specchio nel labirinto di spine e gallerie. Anche con movimenti attenti e metodici, la mia progressione è rassicurantemente più veloce che con gli sci, ma troppi minuti e pochi metri di discesa dopo, un leggero fruscio e una serie di tonfi sordo attirano il mio sguardo verso il basso: la morena ha iniziato a sgretolarsi nel calore del giorno e un pezzo di granito delle dimensioni di un cranio si è appena staccato dalla polverosa parete ocra, rimbalzando al centro della linea di discesa prevista, prima di scivolare a fermarsi tra un gruppo di suoi precedenti vicini, ancora quasi duecento metri sotto di me. Per qualche motivo sento una leggera risatina uscire dalle mie labbra arricciate e mi concedo un breve momento per crogiolarmi nell'assurdità della situazione. Ma so che non servirà a nulla.
Quello che so, invece, avendo studiato questa linea in modo ossessivo con il binocolo e le fotografie nel corso degli anni, è che c'è un pendio di neve sospeso tra la parete morenica di destra di questo canalone e le pareti rocciose appena sopra, e che potrei usarlo per ricongiungermi alla via un po' più in basso, al di sotto della maggior parte della potenziale caduta di massi. Una volta rientrato nel canalone, se scierò abbastanza velocemente e fingerò di essere molto più magro di quanto non sia in realtà, è del tutto possibile, persino probabile, che non venga schiacciato a morte dalla caduta di massi e diventi una macchia rosa sul fondo del ghiacciaio. Le probabilità non sono elevate, lo ammetto, ma sono le migliori che ho al momento. "Non ho tempo per questo", mormoro mentre inizio a risalire il canalone, trovando un piccolo conforto nel mio stesso commento. "Non ho letteralmente il tempo per questo."